Manetta aperta e cervello scollegato. Così ha conquistato il record delle speciali vinte alla Dakar
Alessandro De Petri, detto Ciro – classe 1955 – è stato uno dei piloti “mito” degli anni Ottanta. Il suo nome, legato ai rally africani, è entrato nella leggenda per le sue gesta, ma anche per il suo modo di correre: manetta aperta e cervello scollegato. Lo dice lui stesso in questa lunga intervista che svela un De Petri inedito, tutto da scoprire. Il pilota di Costa Volpino detiene ancora un record, imbattuto in tutti questi anni, e cioè quello delle speciali vinte alla Dakar, gara che non ha mai conquistato, ma che ha contribuito a creare il mito di un uomo, di un personaggio, di un grande pilota.
Come hai cominciato a correre in moto?
Ho cominciato a 13 anni, quando in realtà non avevo ancora l’età per il “cinquantino”. Così fregavo il motorino a mia zia, tipo DEMM, da donna, con due marce – e andavo a fare le gimkane nei campi sportivi. Il motorino era “marcio” ma io non andavo malaccio. Mio papà non andava in moto. Addirittura, mio padre scoprì solo dopo tre anni – io allora ne avevo 15 – che andavo in motorino grazie all’aiuto di un suo amico. Lui non voleva.
E poi cos’è successo ?
Un mio amico che aveva più possibilità economiche di me, aveva un Gerosa, un motorino con più prestazioni; andavamo a fare le notturne nei campi sportivi, ad eliminazione. Erano gare dove si smanettava e io con il Gerosino ne ho vinte un paio: mi hanno notato lì per la prima volta.
Chi?
Dante, un meccanico, che purtroppo ora è morto. Aveva una vera passione e ha visto, e capito, che potevo avere un potenziale… Dante riuscì a farmi dare da un amico un Ancilotti usato, di terza mano, pagato 250 mila lire. E tuo padre ancora non sapeva nulla? No. Lo scoprì a inizio stagione, allora veniva con mia madre a seguirmi con la Volkswagen Maggiolino. Ne approfittavano per fare un picnic la domenica, quando io correvo: mia mamma preparava i panini con la cotoletta. Il classico pic-nic come nei cartoni di Bubu e Yoghi… E così iniziai a fare il campionato regionale con l’Ancilotti.
Fino a che non ti contattò l’Aspes…
Vero. Allora la “Ferrari” della situazione era l’Aspes: loro erano di Busto Arsizio e avevano un ottimo potenziale ed anche un bel po’ di soldi. Nel team Aspes correva Felice Agostini, che sposatosi poi con mia sorella, diventò mio cognato. Anche se aveva la mia stessa età, era più piccolino e magrino, più leggero, e correva nella categoria 50cc; io, più robustello, correvo con il 125, ma agli inizi il modello più alto di cilindrata non c’era. Lo fecero un anno dopo e mi chiesero di correre. Era una roba mai vista. Mi davano anche una moto da allenamento (siamo nel ‘72-’73). Ma Dante mi disse, saggiamente, per il mio bene, di non andare, che non era la moto giusta per me. Mi disse “teniamoci l’Ancilotti” e io lo ascoltai.
Parlaci un po’ di più di Dante…
Dante Sberna per me era una sorta di team manager, un secondo padre. Tutti i martedì sera ci trovavamo nel bar di una vecchia signora, una trattoria, e il moto club era formato da tutti gli appassionati che alla domenica si organizzavano e venivano con noi alle gare a fare i pic-nic. Per un anno quindi non cedetti alla tentazione Aspes.
E cosa accadde?
Corsi con l’Ancilotti e vinsi il campionato regionale di cross. Partivamo per andare a correre la mattina alle 5. Dante aveva una Fiat 600 con le porte che si aprivano contro vento, in avanti. Caricavamo di forza la moto sul tetto, sul portapacchi, toglievamo il sedile del passeggero e io mi mettevo seduto dietro con la cassetta dei ferri e partivamo. Le gare regionali erano tutte nel bresciano, nel varesotto, dalle 8 si facevano i giri di prova nel campo da cross e la sera rientravamo. Quando l’Aspes nel 1973 tornò alla carica proponendomi una moto da allenamento, i meccanici portati da loro, i premi per ogni singola gara, la possibilità di arrivare sui campi da gara al sabato e di dormire in albergo io accettai. Felicino correva e vinceva nella categoria 50, io nella 125. Sembrava di essere il team Ferrari.
Altre vittorie?
Nel 1973 e 1974, altri campionati regionali, poi siamo passati nella categoria juniores e abbiamo cominciato a correre con il Maico 250. Passai al moto club Brescia perché erano gli specialisti del cross: tradizionalmente la provincia di Brescia era votata al motocross, così come Varese e Bergamo erano più orientate sull’enduro. Io ero considerato una roba anomala perché pur abitando in provincia di Bergamo facevo cross.
E il primo mondiale cross?
È stato con l’Aspes. Correvamo Felicino ed io, Lolli con la Simonini e mi ricordo che c’era anche Ian Vittewen che era il meccanico. Arrivò poi la Gilera con Carlo Pernat, Tarao Suzuki con la Yamaha, la Bultaco con Ignazio Bulto, Schneider, il mitico Andrè Malerbe che ai tempi aveva 17 anni e correva con la Zündapp. Poi Piron, Sergio Franco, tutta gente che faceva motocross davvero sul serio.
Enduro ancora niente?
No, non ufficialmente, diciamo che mi allenavo nelle mie zone con quelli che facevano enduro, ma io, da crossista quale ero, un po’ li snobbavo. Qui, quando il pomeriggio uscivi sulle nostre montagne – dove sono nato – trovavi gli amici del posto e si faceva enduro insieme: ero bravissimo.
Perché ti è sempre piaciuto di più il cross?
Perché, ed è quello che poi ha determinato il mio modo di correre anche alla Dakar, io sono un istintivo, un esplosivo di natura e di carattere, andavo via a manetta, non mi interessava aggiustare la moto, pennellare i controlli… L’endurista deve essere un mix tra ragionamento e capacità di aggiustare la moto, il cross invece è tutto fuoco, chi arriva arriva. Sono nato così e morirò così. È il mio carattere.
Ora passiamo alla tua seconda giovinezza: basta gare in sella alla moto. Diventi organizzatore…
Tutto è cominciato in Tunisia dove – dopo aver disputato tanti rally – sono tornato a seguire le gare in moto, i rally che organizzava Cyril Neveu. Ho ripreso i contatti con le autorità della Federazione tunisina e da lì abbiamo cominciato ad organizzare un Campionato. Nello stesso tempo tanti amici mi chiedevano “portaci in Tunisia a vivere un po’ di emozioni”, e così organizzai dei viaggi con una decina di amici, in pullman, sette o otto viaggi all’anno, e ci divertivamo con un giretto… Così è nato il Tunisia Desert Cup. Un evento grosso, da promuovere tutto l’anno: mi sono messo nei panni dei “giovanotti” di mezza età che hanno vissuto belle emozioni nel periodo in cui correvo io, e pensano di andare in Africa per viverle di persona. È una formula che dà soddisfazione, con una classifica che tiene conto della navigazione, delle singole abilità, che dà modo di chiacchierare e di confrontarsi alla sera ai bivacchi.
E quindi è nata questa tua avventura in Tunisia, bivacchi di alto livello, cucina italiana…
Esatto, così ho deciso di fare questo raid con un taglio volutamente alto, non per fare lo snob, ma perché volevo divertirmi e organizzare un’assistenza professionale, filmati, musica, dormire comodi, mangiare bene. In questo evento ho raggruppato amici amanti del motore. Sono vent’anni che vado in Africa e penso di aver esperienza, specie della Tunisia di cui conosco ogni centimetro.
E le biciclette che c’entrano?
Mah, l’idea è stata quella di fare qualcosa di diverso, e siccome noi quarantenni e cinquantenni siamo tutti un po’ ingrassati e lo sport è diventato una cosa importante nella vita di tutti noi… Cosa c’è di meglio della bicicletta? Rappresenta una buona occasione per proseguire a far sport fino alla soglia dei settanta. Ti fa star bene fisicamente, non è pericolosa come le moto, è alla portata di tutti: niente dune, solo il modo di staccare la spina per sei giorni, navigare, divertirsi a usare il GPS e godersi un paese come la Tunisia. Però questa l’ho voluta fare come gara, con l’aiuto di persone che dal punto di vista tecnico siano degli specialisti. Così ho reclutato Paola Pezzo e Fabrizio Bruno…
Il Tunisia Desert Bike 2013 si articola come un vero rally con tanto di trasferimenti e prove speciali in alcune delle più belle località della Tunisia, seguiranno Ciro De Petri la campionessa olimpica di ciclismo Paola Pezzo mentre la logistica è a cura di “Passione Avventura” di Fabrizio Bruno, specializzato in viaggi estremi (ndr).