1975: due studenti di ventuno anni, Eugenio Scanziani e Stefano Stefanoni, iscritti al terzo anno di veterinaria l’uno e di medicina l’altro, inforcano i loro ciclomotori per compiere il grande raid Italia – Svezia. Vi riproponiamo le gesta, i retroscena e le cronache dell’epoca di questa incredibile avventura in Garelli
L’ idea era di raggiungere via terra destinazioni remote, per dare una grande valenza di avventura al viaggio. La Cortina di Ferro che all’epoca divideva il mondo “capitalista” da quello “sovietico” ci precludeva in pratica tutto l’est europeo, perché non eravamo mentalmente preparati a lunghe e incerte pratiche burocratiche consolari. Le mete erano quindi limitate alle più lontane propaggini dell’Europa continentale occidentale. Per noi mediterranei non c’era nemmeno da mettersi a pensare troppo: tra il Portogallo, pur attraente ed esotico, e la Svezia, temperata e misteriosa, scegliemmo la seconda, per noi sinonimo di nazione socialmente e culturalmente all’avanguardia.
Perché il ciclomotore? Perché il costo globale dell’operazione era alla nostra portata. Inoltre, il ciclomotore forniva tutta quella serie di vantaggi del viaggiare lentamente su strade statali. Va inoltre considerato che passando il tempo a smontare e rimontare i pochi veicoli in nostro possesso (pattini a rotelle, bici, ciclomotore e poco altro), conoscevamo a memoria tutta la meccanica del mezzo.
Nel nostro immaginario un’impresa che coinvolgesse un diffuso e popolare marchio italiano poteva meritare grande risonanza mediatica e/o pubblicitaria (i media per la verità erano ancora debolini) e gloria imperitura per gli eroi artefici. In realtà non ci fu chiesto di andare in tv e non utilizzammo i lunghi discorsi preparati a tavolino per l’occasione. Alla fine certamente ci restò grande visibilità nei salotti (cantine e box) motociclistici brianzoli, nel senso che per mesi annoiammo tutti gli amici, anche quelli occasionali, con minimo quattro racconti completi dell’avventura, ma dalla “Garelli motors” ricevemmo solo ringraziamenti e una cordiale stretta di mano all’arrivo.
Queste ultime considerazioni ci fanno riflettere su come sia cambiata la pianificazione di un raid mototuristico. Complice una buona dose d’ingenuità, facemmo il Grande Raid e DOPO andammo in cerca di fama/ gloria/sponsorizzazioni. Oggi forse questa fase è la prima in ordine di priorità, e se è vero che recentemente la crisi economica ha drasticamente ridotto i denari destinati a queste promozioni, non possiamo dimenticare che negli anni ’80 le case motociclistiche coprivano d’oro chiunque proponesse qualcosa di visibile. Probabilmente un altro fattore ha giocato per noi un ruolo nella mancata ricerca di sponsor importanti: a grosse cifre corrispondono grosse responsabilità, e noi in quell’occasione volevamo soprattutto vivere una bella esperienza, senza dover troppo rispondere delle scelte fatte e salvaguardando lo stupendo senso di libertà derivante dal poter modificare giornalmente meta e tragitto. Seguono alcuni frammenti autentici del resoconto a quel tempo pubblicato con grande rilievo (5 pagine) sulla rivista MOTOSPORT.
La scelta del mezzo cadde sull’epico GARELLI M3 perchè fu la prima moto per entrambi, e come si sa “la prima moto non si scorda mai”. Una moto fedele, docile, parca nei consumi, economica, silenziosa… E per noi è pure stranamente bella! Uno dei due Garelli fu comprato qualche anno prima per 5.000 lire, con già 11 anni sulla sella; l’altro, di 10 anni, nel ’74 per 20.000 lire. Partiamo la mattina del 27 giugno 1975 da Sovico (Mi) e all’attacco delle Alpi ci capita di percorrere alcuni tratti con difficoltà, addirittura spingendo le moto.
Inizia a piovere. Per ripararci ci avvolgiamo le mani con sacchetti di cellophane. Bagagli e persone sono presto fradici; l’abbigliamento antipioggia è costituito da una cerata da netturbino e la sera non è certo molto accogliente la nostra tendina di nylon umida. Una zuppa riscaldata su un fornelletto Camping-gaz e una scatoletta di tonno, unico conforto un chilo di pane a testa (mai stati al ristorante in tutto il viaggio!).
Il terzo e il quarto giorno trasferimento fino a Eschwege, dove ci concediamo tre giorni di meritato riposo e, a due passi dalla leggendaria repubblica democratica tedesca (si era nel pieno della guerra fredda), passiamo una deliziosa serata a cantare funicolì funicolà con chitarre lietamente forniteci da famigliole tedesche che per una sera nella vita dimenticano il coprifuoco. Durante questa sosta puliamo un po’ le moto, controlliamo olio, candela e carburatore; acquistiamo anche due variopinti cuscinetti da fissare alla sella (indispensabili accessori per non…) in sostituzione di quelli originali che si sono bucati.
La Germania è la nazione ideale per il turismo ciclomotoristico. Le strade che abbiamo percorso ne sono un esempio: statali secondarie, piccole stradette immerse nei boschi più belli che abbiamo mai visto; poi, quasi in una fiaba, una strada di grezzo pavèe in discesa e ti trovi in un vecchio paesetto con uno o due negozi e qualcuno che ti guarda allibito; altri applaudono o salutano. Poi il paese finisce e comincia una salita, poi ancora boschi, saliscendi, la discesa, il pavèe e un nuovo paesino. I navigatori non erano stati ancora inventati: questo forniva spunto a sviluppare una sensibilità per la cartografia e nel dubbio a capire quanto fosse affidabile l’indicazione fornita dall’indigeno di turno.
Nessun guaio fino a Copenaghen, dove arriviamo dopo tre giorni. Al camping di Copenaghen troviamo due simpaticoni tedeschi di Amburgo, anche loro su ciclomotori – ma di rango – marca Zundapp e Sachs, con i quali facciamo amicizia. In Italia con 1.505 lire si può girare in ciclomotore, ci guardano con molta invidia. L’amicizia con i due ciclomotoristi, cementata dalla comune passione per viaggi ciclomototuristici, rimarrà negli anni successivi.
Decidiamo di partire il giorno dopo per la Svezia insieme. Il pomeriggio successivo conquistiamo la meta: scendiamo dal traghetto a Helsingor e finalmente calpestiamo il suolo svedese. Baci e abbracci. Nemmeno i doganieri avevano mai sentito un “o sole mio” cantato così a squarciagola. Passiamo tre giorni sulla costa svedese a Mellbystrand, ma il costo generale della vita ci prosciuga. Ci buttiamo così in un precipitoso ritorno marciando a tappe forzate (200 km al giorno almeno) verso Uelzen, in piena Germania.
Di sabato, e sotto la solita pioggia, ci si rompe il cambio di una moto e ci trasciniamo verso un camping, ripariamo in fretta il guaio e a mezzanotte brindiamo con i villici. Avessimo guidato una maximoto avremmo dovuto abbandonare l’impresa, ma i nostri ciclomotori consentivano di riparare il cambio, smontando i semicarter con una chiave esagonale a brugola e sostituendo le sfere rotte con comuni sfere d’acciaio recuperate da un vecchio cuscinetto a sfere.
Ripartiamo l’indomani con una sosta di riposo a Eschwege e arriviamo nella verde Svizzera. Ma il destino implacabile ci attendeva al varco, quando già sentivamo odore di casa. All’imbrunire e sotto una pioggia torrenziale (che ha sempre caratterizzato i momenti più delicati del viaggio) ci si rompevano di nuovo le famigerate sfere, sempre della stessa moto; e se la prima volta in condizioni relativamente favorevoli l’intera operazione ci aveva preso tre ore e mezza, questa volta quasi al buio, sotto una stretta tettoia, con la schiena bagnata, tutto il lavoro fu eseguito in un’ora e mezza. Ciò nonostante il motore partì subito, pensiamo anche in virtù delle invocazioni al Santissimo Nobby Clark, nostro protettore (meccanico ufficiale Yamaha del tempo).
Decidiamo di proseguire nella marcia malgrado uno dei fari non funzioni; verso le 00,40 della mattina imbocchiamo a velocità sostenuta la galleria autostradale del S. Bernardino (neanche se ce lo avesse ordinato il Papa ci saremmo fatti una seconda volta la tragica scalata fino al rifugio come all’andata) e sbucati dall’altra parte non vi raccontiamo per pudore le feste, gli hurrà, i” viva i Garelli”, che sono saltati fuori. Attendiamo l’alba sempre piuttosto allegrotti e ci buttiamo nella discesa a motore spento. Verso mezzogiorno arriviamo davanti al negozio Garelli di Monza. Cercammo invano le telecamere della RAI. Sarà stata l’ora di pranzo, ma il concessionario Garelli non si è fatto impressionare più di tanto dai racconti mirabolanti, e invece di firmarci assegni a 7 cifre o ingaggiarci per futuri raid in Mongolia Esterna, ci ha stretto la mano con vigore, si è complimentato molto e ha abbassato la saracinesca per andare a mangiare.
Questo viaggio è stata un’esperienza molto positiva perché viaggiare in ciclomotore vuol dire andare adagio, guardarsi attorno, poter osservare con calma, sentire i profumi, soffrire delle salite e gioire delle discese, percorrere piccole strade in posti sperduti e magnifici; vuol dire anche conoscere gente che s’incuriosisce, ti chiede come va, o ti saluta, o si mette anche a ridere. Insomma, è molto diverso che andare a centottanta Km orari in autostrada. Per certi versi è noioso, per altri molto più bello. In conclusione è con orgoglio che diciamo di aver percorso circa 3200 Km, e per rabbia di motopesantisti e automobilisti diremo che ciascuno di noi andata e ritorno ha speso in tutto circa L. 10.000 di benzina.