60.000 km in Harley-Davidson
L’Asia; nel calderone delle emozioni di questo continente cuociono paesaggi, problemi, gratifiche, sofferenze, storia, contraddizioni e una sterminata varietà umana. Un cibo per la mente che non sazia mai, che spinge all’ingordigia della conoscenza, fuori e dentro quel sottile strato di pelle che separa ogni essere umano dal pulsare del mondo
testo e foto di Donato Nicoletti
A volte una frattura può rivelarsi più ampia del previsto. Non parlo di quelle subite in un incidente motociclistico, ma di quelle che, a causa dello stesso, possono aprire una profonda crepa nella visione delle cose di una persona. In un letto di ospedale si ha tempo a sufficienza per rimuginare sulla propria condizione interiore, di soppesare e valutare i pro e i contro di un desiderio che il cervello riverbera in continuazione; la strada. Null’altro che un banale nastro d’asfalto, il quale ammalia migliaia di anime irrequiete pronte a tutto, o quasi, pur di farsi risucchiare dalla sua magnetica forza traente. Così, anziché lasciare scorrere i giorni pigramente tra lavoro e socialità preconfezionata, qualcuno decide di superare il punto di non ritorno, mettendo se stesso nelle mani dell’ignoto.
Questa è in sintesi la genesi di Lone Ride Around; una scarica di adrenalina itinerante che attraversa uno sterminato continente. È la metamorfosi del desiderio in realtà, del disegno impossibile che lentamente prende forma su una cartina geografica. Mi ci vogliono nove mesi per ragionare, calcolare e pianificare un progetto impegnativo, per non dire impervio. Tutto è finalizzato a setacciare, per quanto mi sarà possibile, le strade dell’Asia a cavallo di una moto decisamente poco avvezza a questo tipo di avventure.
L’Harley non possiede, a dire dei più, i geni dello strumento ideale per gli overlanders motociclisti; ma è pur sempre una moto, quindi non vedo perché non possa continuare a fare il suo dovere anche sul Pamir, sull’Himalaya, nella giungla indonesiana o in Siberia. Lascio il lavoro e l’Italia ai primi di luglio 2010, carico emotivamente, ma allo stesso tempo disteso. Con me viaggia Stefano, che mi accompagna con la sua BMW GS. Attraversiamo Grecia, Turchia, Georgia e Azerbaijan per arrivare a Baku e solcare il Mar Caspio su un pericolante traghetto del Soviet che fu.
In Turkmenistan la burocrazia più pesante del caldo, 45°, ci costringe a passare ore in dogana prima di essere rilasciati. Ad Ashgabat, la capitale, rischio addirittura l’arresto perché sorpreso a camminare per strada durante il coprifuoco. Sulla Via della Seta, in Uzbekistan, infiliamo in sequenza le tre perle di Khiva, Bukhara e Samarcanda prima di arenarci all’ambasciata pakistana di Tashkent. Qui niente visto per gli stranieri non residenti; sfideremo la sorte presentandoci al confine senza.
Nel frattempo ci arrampichiamo sul Pamir, dove la natura estrema soverchia l’uomo. L’altopiano è adagiato a 4.000 metri, cinto da vette con nomi imponenti come Pik Lenin o Pik Kommunisma. I locali lo chiamano “Bam i Dunya”, il tetto del mondo, un’area che rimase isolata, misteriosa e inaccessibile fino al dissolversi dell’URSS. Con la disgregazione dell’Unione Sovietica anche le strade hanno seguito lo stesso destino, riducendosi a malmessi tratturi. A Bishkek, in Kyrgyzstan, incontriamo gli altri componenti del gruppo, siamo ora 7 moto, con cui ho organizzato l’ingresso in Cina per dividere gli ingenti costi burocratici. Nello Xinjiang trascorriamo cinque giorni prima di presentarci sul Khunjerab pass, 4.700 metri, al confine col Pakistan. Io e Stefano siamo gli unici senza visto, che otteniamo al lume di candela in uno sperduto ufficio sulla Karakoram Highway.
Il paese si rivela tanto affascinante, per i giganti come il Rakaposhi o il Nanga Parbat, e per la cordialità della sua gente, quanto terrificante per le condizioni della strada. Impieghiamo 11 giorni per coprire gli 840 km che separano il confine da Islamabad. In mezzo ci sono ponti crollati, un lago che ha sommerso la strada per oltre venti chilometri, frane, faide tra sunniti e sciiti, talebani, fango, panorami rudi e maestosi.
L’India ci accoglie a metà settembre con la coda del monsone. Risaliamo rapidi verso le montagne a nord; destinazione Ladakh, il piccolo Tibet. Nel deserto d’altura himalayano l’unica cosa che si muove è il vento; quassù anche il tempo sembra essersi incantato ad ammirare il panorama. Leh è il centro amministrativo della regione, da cui partono le nostre escursioni. Prima alla Nubra Valley, dove scolliniamo sul Khardung La, il più alto passo carrozzabile al mondo, 5.602 mt., e poi lungo le rive del Pangong Tso, un lago glaciale condiviso con il Tibet cinese.
È ottobre; Stefano rientra in Italia, io lascio Delhi e faccio rotta verso il Rajasthan. Arrivo a Mumbay un giorno prima di Barack Obama; se già la seconda città del paese è un delirio in condizioni normali, immaginate cosa possa diventare a causa delle asfissianti misure di sicurezza imposte dall’ospite americano.
Tre settimane a Goa mi ritemprano nel corpo e nello spirito dopo cinque mesi di viaggio. Faccio vita da spiaggia, in attesa che il meccanico risolva il problema elettrico che mi tiene ancorato in quest’oasi di tranquillità, lontano dal brulicare indefesso delle strade indiane. Poi Bangalore e il Kerala, toccando la punta meridionale del subcontinente. Da Calcutta spedisco la moto a Bangkok, dove riceverà le cure di cui necessita. La Thailandia si rivela una scoperta. L’atmosfera è lontana anni luce dall’India, quantunque il traffico non sia da meno.
La terra del sorriso mi accoglie a braccia aperte, ed io mi ci tuffo per tre mesi, nuotando anche in Laos e Cambogia. Ayutthaya, Sukothai, Chiang Mai, il Triangolo d’oro, il Mekong, Luang Prabang, Angkor, Phnom Penh; ma anche Pattaya e Pukhet, giusto per non lasciare nulla al caso. La Malesia offre invece secchiate d’acqua, umidità inaudita e autostrade gratis per le moto. Il salto in Indonesia avviene grazie ad una onion boat, che trasporta l’Harley attraverso lo stretto di Malacca fino a Medan, sull’isola di Sumatra. Verde, ovunque; rigogliosa e selvaggia, quest’isola ospita il lago Toba, la più grande caldera vulcanica del pianeta. Sono alla metà del mondo; l’equatore viene attraversato dalle ruote dell’Harley a Bonjol. Ora guido a testa in giù. L’Indonesia è considerato il paese dei vulcani per antonomasia e l’isola di Java ne conta ben 121. Di questi visito il Merapi, il Bromo e il Kawah Ijen con la sua venefica solfatara, dove si consuma lentamente il destino di un gruppo di disperati, disposti ad estrarre lo zolfo a mani nude per poche rupie. Bali; piccola isola, grande casino.
A metà giugno le scuole sono chiuse anche in Australia, per cui centinaia di giovani canguri fanno un salto qui per gozzovigliare senza sosta, e senza ritegno. Nonostante i problemi relativi alla spedizione della moto, chiedono 14.000 $ per farla volare a Tokyo, esploro Bali in relax, godendomi le risaie terrazzate, i templi Hinduisti, i laghi vulcanici, le spiagge. Lascio la parte più vera dell’Asia per proiettarmi nel futuro tecno-conservatore del Giappone.
Dopo l’approssimazione umana di paesi come India, Pakistan, Laos, Cambogia e Indonesia il cocktail di efficienza, rispetto delle regole, progresso, tradizione e senso di responsabilità nipponico mi ubriaca completamente. Consumo i miei primi giorni nella capitale confuso e smarrito come in un videogame. Sosto a Nara per visitarne la sua stupenda architettura lignea. Il costo della vita da queste parti è veramente impegnativo. Per risparmiare qualche Yen pianto la tenda dove capita o nei campeggi, dove spendo l’equivalente di 8 euro. Oppure vengo ospitato da altri viaggiatori motociclisti. Succede a Takashima da Makiko, ex campionessa di cross che ha girato il globo per 5 anni e con Minori a Kobe. Conobbi Minori nel novembre 2003 a Patrasso, in Grecia. Io tornavo dalla Giordania, lei stava girando il mondo con la sua Harely-Davidson Sportster che tutt’ora possiede e usa. Entrambi stavamo imbarcandoci per l’Italia, su traghetti diversi. Una breve chiacchierata, un augurio reciproco e nulla più. Per puro caso, grazie a Makiko e alla rete dei biker giapponesi, le nostre strade si sono incrociate di nuovo dopo otto anni, dall’altra parte del mondo. A Nagano sono invece ospite di Chris Lockwood, un Gaijin (straniero) californiano conosciuto tramite il forum di Horizons Unlimited. Vive da oltre vent’anni in Giappone, dove si è sposato e lavora come traduttore. Trascorro gli ultimi giorni sull’isola di Hokkaido, il paradiso dei motociclisti, prima che un traghetto mi ingoi a Wakkanai per vomitarmi a Korsakov, sull’isola russa di Sakhalin. Un’altra bagnarola mi riporta, dopo tre mesi, sulla terraferma, a Vanino. Comincia qui, davanti al Golfo dei Tartari, il mio strampalato coast to coast, che mi porterà a percorrere 12.000 km nel giro di un mese, dal Pacifico alla costa lettone sull’Atlantico. Però, prima di rivedere il mare s’impone, visto che sono di strada, una deviazione in Mongolia. Trascorro alcuni giorni a Ulan Bataar, limitandomi a visitare i paraggi ed evitando le piste a causa delle non perfette condizioni ciclistiche della moto. Viaggio dal Giappone con un ammortizzatore fuori uso, ma viaggio; la scadenza del visto russo si avvicina e ho ancora 7.000 km davanti a me. Lago Baikal, Krasnoyarsk, soccorso e ospitato da bikers locali, Novosibirsk, Omsk, Ekaterinburg e Perm, dove attraverso gli Urali e rientro in Europa dopo oltre un anno; suvvia, un po’ di magone non lo si nega a nessuno. Mosca è una bellissima città. La sua commistione architettonica, tra barocco zarista e gigantismo sovietico, è affascinante, completa. Riflette esattamente l’idea che una persona può farsi della Russia odierna. Ostentazione del potere, protervia, intrallazzo, vacuità dello stato sociale, disoccupazione, emarginazione, miseria. Impiego le ultime due settimane per avvicinarmi a piccoli passi verso casa. Ogni tappa è una scoperta; Riga e la Lettonia, Vilnius, la Lituania e le croci di Siaulai, Cracovia, Auschwitz. E Praga? Ammaliante con la sua atmosfera senza tempo, dove passeggiando di sera tra i vicoli di Malastrana, ti aspetti sempre di veder spuntare gli occhi scavati e il volto sofferto di Franz Kafka. Autosuggestione? Può darsi, di certo suggestioni ed emozioni ne ho avute parecchie durante questi quattordici mesi di lunga strada.
Ho vissuto un continente giorno per giorno, ho provato spesso imbarazzo per la dignità e la disponibilità degli ultimi, offerta senza tornaconto. Ho avuto modo di toccare con mano realtà proiettate in occidente spesso in maniera distorta. E parecchi conti non mi sono tornati. Ho spremuto la moto come non mai, maltrattandola selvaggiamente per 60.000 km eppure, nonostante qualche prevedibile acciacco, mi ha riportato al punto di partenza. Ho attraversato deserti e città miraggio, ho visto l’alba sul Pamir, ho combattuto con la strada sul Karakoram, ho toccato il cielo sull’Himalaya. Mi sono immerso in quel fiume della vita che è l’India, ho goduto del popolo del sorriso in Tailandia, ho percepito il dolore della follia di Pol Pot in Cambogia. E la magnifica Indonesia mi ha accolto come se fossi a casa, pur circondato da sconosciuti. Questo è il succo di Lone Ride Around, questo è il motivo che mi ha spinto a lasciare la routine quotidiana per inseguire la linea tremolante dell’orizzonte. Ho vissuto da spirito libero il mio tempo, quello che mi sono preso, per sentirmi soddisfatto interiormente. Perché la strada porta ovunque ed avvicina. Certo, ci vogliono convinzione, volontà di ferro, elasticità mentale e pazienza monacale. Una volta combinati insieme questi fattori è un attimo girare la chiave, innestare la prima e dare di gas; dopotutto non è che un giro in moto…
Road Book
Luglio 2010: Grecia, Turchia, Georgia, Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan
Agosto: Tajikistan, Kyrgyzstan
Settembre: Cina, Pakistan
Ottobre, Novembre, Dicembre: India
Gennaio, Febbraio 2011: Thailandia
Marzo: Laos, Cambogia
Aprile: Malesia
Maggio, Giugno: Indonesia
Luglio: Giappone
Agosto: Mongolia, Russia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca
Guide:
Con me ho portato solo quella relativa all’Asia Centrale (Lonely Planet). Per gli altri paesi mi sono documentato sia prima che durante il viaggio.
Logistica moto:
Traghetto Baku (Azerbaijan) – Turkmenbashi (Turkmenistan), 200 $
Trasporto aereo Calcutta (India) – Bangkok (Thailandia) con Thai Cargo, 600 euro
Trasporto, barca, Penang (Malesia) – Medan (Indonesia) 80 euro
Trasporto aereo Bali (Indonesia) – Tokyo (Giappone) con Thai Cargo, 1.500 euro
Traghetto Wakkanai (Giappone) – Korsakov (Russia), 250 euro
Manutenzione:
Sostituzione supporto anteriore motore (a seguito incidente) a Mumbai (India)
Sostituzione cuscinetti ruote, pastiglie, dischi freno, camma e cuscinetti distribuzione a Bangkok
Sostituzione batteria a Kyoto (Giappone)
Sostituzione cuscinetti ruote, cuscinetti sterzo e pastiglie freno a Mosca (Russia)
Sostituzione lubrificante a 12.000, 24.000, 31.000, 41.000 e 52.000 km
Sostituzione pneumatici a 24.000 km (Bangkok) e 41.000 km (Tokyo)
Ricambi:
Questa è la lista base delle parti che mi hanno accompagnato: centralina accensione, regolatore di tensione, bobina, cavi e leve gas e frizione, dischi frizione, camere d’aria, cuscinetti ruota, pastiglie freno, candele e relativi cavi, filtri aria e olio, set chiavi fisse e a cricchetto, brugole, pasta per guarnizioni e per metalli, viteria varia, nastro americano, filo di ferro.
Burocrazia:
L’ambito burocratico per un raid come questo può essere, a volte, più impegnativo del viaggio stesso. Mi sono affidato ad un’agenzia specializzata di Roma, www.Intelservizi.it, per ottenere i visti di Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan e Kyrgyzstan. Gli altri (India, Pakistan, Thailandia, Indonesia, Russia e Mongolia) sono stati ottenuti strada facendo. Discorso a parte per la Cina: occorre appoggiarsi ad un tour operator locale, kashgaradvantour@hotmail.com, per inoltrare la richiesta ed ottenere i permessi. La concessione dei suddetti non è garantita. Bisogna presentare un percorso di viaggio dettagliato che includa i luoghi e le date d’ingresso e uscita, tappe ed hotel prenotati. In caso di risposta positiva delle autorità il tempo medio necessario a produrre il tutto è di circa tre mesi. Il transito in Cina può avvenire solo con una guida autorizzata. Il costo: per limitare le spese ho organizzato un gruppo di sette moto. Il costo pro capite per una permanenza di sei giorni in Cina è stato di 571 euro a testa; vitto e carburante esclusi. La Patente Internazionale, www.trasporti.gov.it, non sempre viene richiesta alle frontiere, ma è assolutamente consigliata la sua presenza al vostro fianco, per evitare complicazioni e perdite di tempo. Quella in mio possesso segue la convenzione di Vienna 1968 ed ha validità triennale. Purtroppo la stessa non è riconosciuta in Giappone, il quale richiede quella fedele alla convenzione di Ginevra del 1949 che ha durata limitata ad un anno. Io ho semplicemente fatto finta di nulla, esibendo la mia versione senza subire contestazioni. Altro argomento delicato, ed impegnativo, è il Carnet de Passage en Douane, www.aci.it. Questo documento ha la funzione di passaporto per il mezzo condotto, e consente l’importazione temporanea dello stesso in determinati paesi, siano essi in Asia o in Africa. Lo si ottiene tramite fideiussione bancaria o tramite polizza fideiussoria assicurativa. Il costo del documento è di 160 euro.
Alimentazione:
Per chi non ha problemi di sorta, io sono vegetariano, sarà un piacere approfondire la conoscenza dei piaceri della tavola nei vari paesi. In alcuni casi l’offerta gastronomica non brilla per varietà, disponibilità limitata di materie prime, ma può comunque soddisfare le necessita volumetriche del proprio stomaco. È fondamentale ricordare sempre di tenersi alla larga da acqua (non imbottigliata), ghiaccio, frutta e verdura crude. Sbucciare sempre e comunque la frutta; solitamente viene lavata con l’acqua corrente, quindi potenzialmente deleteria.