Fuoco, fiamme, caldo, gelo, pioggia, acqua dolce, acqua salata, neve. E poi orsi, lemuri, scimmie, colibrì, pantere, ragni, serpenti. Nel mezzo sterrati, asfalto, sassi, fango, curve e rettilinei. Questa potrebbe essere una descrizione caotica del mio ultimo viaggio: percorrere i 36mila chilometri che separano Capo Horn dall’Alaska con un ciclomotore.
Di Simone Cannizzo
Raramente esistono motivazioni razionali per un viaggio di questo tipo. Di norma sono piccoli spunti che aggregano idee ed energia attorno a loro, fino a ottenere una forma definita che definita, in effetti, non è mai. Una notevole percentuale di quanto compone l’impresa è lasciato al cosiddetto “caso”, o meglio dire “disordine operativo”; non penso a tutto perchè non voglio farlo. Ho imparato, nel mio ormai vasto carnet di esplorazioni poco probabili e altrettanto poco consigliabili, che l’imprevisto è la sintesi stessa del viaggio. Attira come una potente calamita persone e situazioni che neppure con una attenta ricerca e selezione sarebbero uscite dal più che classico cilindro.
Alla Betamotor devono averla pensata nello stesso modo, quando hanno ricevuto e letto la mia e-mail. Devono aver pensato che attraversare un intero continente in sella a 49 centimetri cubici avrebbe generato del caos, attorno a me. E da quel caos, sarebbero nati spunti per immagini e racconti unici, perchè non concordati e ancor meno lineari.
Alla fine di novembre 2012 il mio piccolo ma deciso destriero, pulito come non lo è mai più stato nei 10 lunghi mesi successivi, ha emesso il primo piccolo vagito azzurrognolo ed è uscito, con le sue proprie ruote, dalla dogana del porto di Ushuaia. Il bagaglio era ammassato in modo incerto su quella porzione di spazio che, in un mondo irreale di uomini piccolissimi, sarebbe stato destinato al passeggero. Sella durissima, spazio a dir poco ridotto, ma inizio a salire lungo un tragitto indefinito e con una lunghezza solo stimata attorno ai tre quarti della circonferenza terrestre.
I primi tre mesi passano solcando in tutte le direzioni le Ande. Dall’Argentina in Cile e poi in Bolivia, Perù ed Ecuador, la mia strada continua a incrociare queste montagne possenti e altissime, creando non pochi problemi al piccolo Minarelli spesso bloccato in prima marcia a meno di 10 chilometri orari. Per giorni interi. E poi, sentire di nuovo il suo respiro regolare scendendo dall’altra parte del massiccio, piano piano, fino a raggiungere delle prestazioni di cui mi ero addirittura dimenticato.

Corro sulla mitica Ruta 3 cilena, un paradiso per ogni endurista. E come tutti i paradisi, a rischio, per una lingua di asfalto che si allunga e divora divertimento e polvere, sempre più a sud. E poi ancora in Argentina, sulla Ruta 40, la strada dei vini. Panorami culinari e alcoolici in qualche modo familiari per un italiano che, arrivati a questo punto, venderebbe l’anima per una mozzarella di bufala oppure un bicchiere, anche piccolo, di limoncello. E che riesce addirittura a trovarlo, usando quella calamita di casualità che si attiva, potente, ogni volta che parto per un viaggio con le idee completamente confuse in merito a quando, dove e fino a quando. Compare Roberto, italiano di Bergamo che mi aggrega a un tavolo di altri italiani nel suo piccolo ristorante di Sucre. A tremila metri sul livello del mare, con una corona di montagne tutto attorno, bevo Chianti, assaporo linguine al pesto, divoro burratine che mai mi sarei immaginato di trovare qui. E non trattengo le lacrime quando esce dalla cucina una moka fumante, caricata con caffè che termina in “y”.

Attraverso l’Ecuador con i suoi Panama, che pur chiamandosi in quel modo sono un prodotto originale di questo paese, ma venivano spediti in Europa passando il famoso canale e in questo modo, de facto, rinominati.
Il piccolo monocilindrico scende finalmente dalle Ande toccando le coste del Perù. E mi rendo conto che è estate. Fa caldo, rimetto molti degli strati che mi ricoprono nel tubo che contiene le mie poche cose. E mi fermo, per qualche giorno. Guardo il sole, questa volta caldo, mi riposo e leggo pagine su pagine sotto una palma a Pisco, mi pare impossibile poter indossare una semplice maglietta e dei pantaloni corti. Dove ero fino a qualche giorno fa? Quale immane ghiacciaio mi ha tenuto prigioniero per oltre due mesi?
Viaggio per settimane alla destra dell’Oceano Pacifico. Vedo scorrere le ombre durante la giornata, riflessi che le allungano e poi le annullano e finiscono per allungarle ancora. Gli occhiali scuri mi sono necessari per limitare il riverbero del sole sull’acqua.
Mi sto avvicinando. Uno dei motivi che mi ha spinto ad intraprendere questa impresa era battere il record del mondo di viaggio in ciclomotore, di 12 mila chilometri circa, fissato da un amico italiano nel 2010. Ma non pensavo di arrivarci così presto.

Il contachilometri è eloquente e mi assegna un piccolissimo pezzo di storia ed una scarsa notorietà 300 chilometri a nord di Lima. Sempre incastrato tra l’oceano e delle dune indecise, celebro me stesso con un video interrotto in continuazione dal rumore del vento e da quello più insidioso dei mille camion che mi soprassano. I conducenti cercano di capire se ho qualche problema meccanico o solo celebrale, facendo gesti interrogativi dalle cabine di guida.
L’approssimarsi del Centro America, unico luogo geografico sotto le mie piccole ruote che non avevo mai visitato in precedenza, mi accoglie con le spiagge caraibiche del paradiso di Los Roques e con l’unico passaggio che non ho potuto effettuare via terra. In effetti, non esiste alcuna strada che collega la Colombia a Panama. Bisogna scegliere. È possibile caricare la moto su una barca a vela e farsi trasportare verso le coste panamensi, oppure sarei dovuto arrivare qualche settimana dopo e usufruire del comodo traghetto Cartagena-Colon. E invece scelgo di procedere come non fanno i turisti, facendo saltare la Beta tra una lancia e la successiva, tra una nave cargo e la vasca da bagno galleggiante, subito dopo. Senza orari, non sono tratte turistiche. Quando la barca è piena, parte. Sempre che ci sia, la barca.
Ci metto quasi 3 settimane per percorrere i 250 chilometri di mare senza alternativa che non sia aerea o fuori budget. E resto ospite di paesini senza collegamento terrestre, senza elettricità, senza acqua. Ma pieni di vita e feste fino a quando tramonta il sole. E musica, quando c’è un generatore e della benzina. Insomma quando è arrivata la barca, dalla Colombia. Quando sono arrivato anche io.
Il cargo porta con sè denaro, merci, cibo, qualche improbabile turista, della benzina, qualche musicista che sta cercando di passare il confine con Panama illegalmente. Insomma, porta nella sua pancia della vita. E tutta questa vita attende la barca successiva, che da qui ci possa portare verso nord. Si narra di persone che abbiano atteso in questo posto per settimane, giocando a carte sotto i due piccoli alberi che rinfrescano la baia di Capurgana. Il luogo è fermo. Come il tempo. Scandito nel modo più naturale dalla luce e dal buio, non c’è altro da fare che adattarsi. Non riesco neppure a sorprendermi troppo nel constatare che una pantera, nera e lucida come un vinile, la mattina del terzo giorno vorrebbe prelevare qualcosa da mangiare nell’unica panaderia del paese.
Le due settimane in barca le ho passate con qualche altro turista poco probabile, in giro da sei anni in bicicletta e partito dal Sud Africa, e in compagnia di un ladruncolo colombiano che ha fatto scomparire una delle mie Canon con annesso obiettivo da 300 millimetri. Vado ripentendomi da quel giorno che prima o poi sarebbe dovuto succedere anche a me. L’arcipelago delle San Blas è diviso in due da una linea immaginaria: a nord la parte turistica, i resolt lussuosi con yacht e barche a vela battenti bandiere di mezzo mondo. Ma a sud eravamo solo una delle poche barche che trasportano generi necessari al sostentamento su queste isole. Nessun turista, da lungo tempo. Credo.
Ero io l’alieno con tre antenne, io oggetto di curiosità, sempre io il contorsionista che scattava immagini cercando di non essere notato.
Avremmo dovuto impiegare circa tre giorni per effettuare il tragitto, ma ce ne sono voluti quattordici. Il capitano non disdegnava fermare questo pericolante oggetto galleggiante ogni qual volta il creditore di turno non si faceva trovare. Aspettando. E aspettare è stata la chiave di questi giorni, mangiando con i marinai, dormendo su assi di legno con una bottiglia di Fanta come cuscino, coprendosi con dei teli di plastica quando dal cielo scendeva rabbiosa una pioggia incessante. Fino a che non hanno venduto sia le assi che il telo e mi sono dovuto arrangiare costruendo un giaciglio sospeso da terra con un insieme di corde arrivate a fine carriera.
La piccola Beta torna a ruggire a Panama, come nulla fosse. E digerisce i panorami verdi del Costa Rica, le antiche città dell’Honduras e del Guatemala, le partite di pallone sulla grandi spiagge oceaniche con un sole rosso e morente in El Salvador, portandomi in giro senza sosta, senza perdere un colpo, senza mai darmi alcun problema. E di questa sua fierezza non riescono a essere partecipi i doganieri messicani, che mi trattengono per due giorni interi alla frontiera col Belize. Non voglio tornare indietro e spendere altri 40 dollari per saldare la tassa di soggiorno, non posso avanzare perchè vogliono che la garanzia doganale sia versata con una carta di credito intestata alla Betamotor. Vago per due giorni nella terra di nessuno tra le due sbarre, luogo di casinò pericolanti e donne in reggicalze altrettanto instabili. Occhiate languide di palpebre struccate sotto una pioggia torrenziale. Vivo tra il ristorante cinese con tanto di WiFi e un piano di cemento appena sotto il gabbiotto della polizia. Zona giorno e zona notte. Involtini primavera e freddo. Riso cantonese a colazione, pranzo e cena e una copia dei “Miserabili” morbida e devastata dall’umidità, usata come cuscino. Alla fine li convinco di non aver fatto ventimila chilometri in sei mesi per vendere un ciclomotore in Messico, ma mi concedono solo tre settimane per uscirne.

All’inizio il tempo inclemente mi fa viaggiare rapido e umido per tutto lo Yucatan, ma il Chiapas mi rallenta con i suoi paesini sperduti, la gente ospitale, i mariachi in assetto da guerra che cantano e suonano nei parchi pubblici. Fatico a staccarmente, ma devo andare. E un caldo terrazzo di San Critobal diventa un quartier generale dove, assieme ad altri viaggiatori e in compagnia di un’immensa cartina ed ettolitri di caffè, valutiamo come farmi uscire rapidamente dal paese. Direttamente verso la California guidando sulla costa ovest, oppure l’ingresso in Texas col quale posso guadagnare circa tre giorni di viaggio, a patto di attraversare indenne la parte est del paese, pericolosa e infestata da trafficanti di droga.
Scelgo di salire verso est. Confido nella buona sorte. E faccio bene, visto che neppure le pallottole sparate da un simpatico messicano verso la macchina della polizia al suo inseguimento mi raggiungono. Brindo con una Corona senza limone e delle tapas al lieto evento che mi vede ancora vivo presso Nuova Laredo, al confine con gli Stati Uniti.
Pensavo che la metà ideale del viaggio, il giro di boa mentale di questa spedizione assurda e affascinante, sarebbe stato il canale di Panama, una sorta di spartiacque tra un prima e un dopo, tra una metà e l’altra. Invece, complice la lentezza delle navi e una vaga delusione nel constatare che si trattasse in effetti di un semplice canale, pongo qui il momento del passaggio. Un cartello trionfale recitava “Benvenuti nel Nord America” già in Messico. Non voglio dibattere di geografia, ora. Resta il fatto che mi sia sembrato più una volontà di dividere “noi” da “loro”, il Messico da “tutti quei piccoli stati incasinati a sud”.
Vedo le stelle e le strisce ovunque , organizzate come ben sappiamo. Sono arrivato negli Usa. Meglio, sono arrivato all’ufficio immigrazione degli Usa.

Ammetto che non riesco a trattenere uno sfrenato desiderio di un hamburger gigante con patatine, bibita gassata e ali di pollo fritte al tavolo 12. Grazie. Ma prima devo rispondere a una pioggia di domande relative al mio passaporto. Trasferiscono il mio documento da un poliziotto all’altro. Sempre più alto, sempre più grasso, sempre più autorevole. Vogliono sapere come mai sono stato in Pakistan, il motivo del mio viaggio in Iran, la presenza di un visto siriano e questo strano timbro che pare afgano. Non ho mai visto nessuno aggrottare la fronte in quel modo. Una smorfia disumana da chi proprio non riesce a capire cosa ci faccia un sudicio italiano in motorino alla frontiera col Messico.
Ma passo. Ora manca solo una frontiera da attraversare, col Canada. Punto verso la West Coast. Ed è un incessante danza di strade a 12 corsie e macchine della polizia e motel da 69, 59, 49, 39 e 29 dollari e scritte di fastfood issate su immensi pali ai lati dell’autostrada e posti aperti 24\7 e benzinai e tutto quanto fa America. E filosofia yankee riassumibile in “grosso è bello”.
Le moto sono grandi come auto, le auto come furgoni, i furgoni come camper, i camper come camion e questi ultimi ne godono dall’alto della catena meccanico-alimentare.
In ogni stato vengo fermato diverse volte perchè qui non si può viaggiare sull’autostrada, qui si, qui ci vuole il casco, qui no, qui devi spegnere le luci (“non ho l’interruttore, da noi sono obbligatorie”), ora scenda e mi segua (“non posso, il cavalletto è da qualche parte in Bolivia, mi serve un muro”), favorisca la patente, sono stato in Italia lo scorso anno e mia moglie la adora, favorisca il passaporto, adoro la pizza, viaggiava troppo lento, ma Silvio Berlusconi è ancora vivo?
La strada verso Los Angeles è rapida ma noiosa. Viaggio per 2.000 chilometri tra il nulla del Texas, il vuoto del New Mexico, i vasti spazi vuoti dell’Arizona. Ma l’organizzazione, la pulizia e la gentilezza in luoghi come il parco che circonda il Grand Canyon sono esemplari. Mi sembra di venire da un luogo sperduto del terzo mondo. È tutto semplice. Fare un biglietto, prenotare una piazzola campeggio all’ingresso del parco e noleggiare una tenda direttamente al gabbiotto, di modo che qualcuno l’abbia già montata nella piazzola al mio arrivo.
Per mesi ho immaginato il mio ingresso trionfale a Las Vegas, acclamato dalle folle in delirio e maledetto dal consierge del mio hotel, al quale lancio le chiavi del motorino dicendogli di parcheggiarmi il mezzo. E io, come in qualche pubblicità di uomini veri, entrare al Caesar Palace oppure al Bellagio, sporco ma affasciante, lasciando orme di fango sul pavimento di marmo di Carrara. E invece succede che entro in città alle 6 del mattino, unico momento nel quale la città non è in fermento. Uno stravolgimento completo, tra i vizi notturni e la Vegas per famiglie del giorno che incalza. Si raccolgo i rifiuti, anche umani, pulendo le strade da lattine ed ubriachi. Le prostitute si ritirano e la città si fa il lifting. E io parcheggio nel mio ostello denominato “Sin City”, 10 dollari di comfort, aria condizionata e bigliettini con numeri e foto di ragazze, uomini, transessuali, nani e ballerine di ogni foggia. Siamo nella terra dell’all inclusive e mi ci adatto. Abbonamento del bus con ingresso in un locale e drink omaggio, giro in limousine con tour di 10 bar e alcool illimitato, buffet pantagruelico acquistando anche solo una birra. All inclusive, appunto. Ottimo.

Odio Los Angeles e le sue immense distanze con troppo poco da vedere, mi innamoro di San Francisco con i suoi tram, il Golden Gate, le zone storiche, perdo interi pomeriggi nei negozi di vinili a Seattle e New Orleans maledicendo la mancanza di un capiente carrello che corra dietro di me.
E per una volta, 150 chilometri dopo Los Angeles, in piena notte, la Beta si blocca. Grippo il motore in modo violento, e altrettanto violentemente si spegne la luce visto che il mezzo non dispone di alcuna batteria. Mi siedo sotto le stelle e attendo, per poi ripartire facendo un pieno di Gatorade al limone al posto dell’acqua e arrivando in qualche modo a una stazione di servizio. Sul tubo di silicone era scritto chiaramente che non poteva essere usato come guarnizione nei motori, ma ha funzionato alla perfezione per i 250 chilometri che mi separavano da San Francisco, dove un pacco di ricambi “made in Italy” già mi attendeva.
E poi ancora verso Nord, attraversando il British Columbia e poi lo Yukon. Terre remote dove vedo per la prima volta la scritta “Alaska”, indicando la strada che da Deadhorse sale verso Fairbanks, la mia meta.
Mancano ancora almeno duemila chilometri ma ho una sensazione strana, una calma apparente che mi attanaglia quando realizzo che quel percorso che pareva infinito sta per terminare. Guardo la mappa e inizio a stupirmi riflettendo da dove son partito, non più per dove sono diretto.
Orsi, ovunque. A decine o forse centinaia. Alcuni affamati e di certo dotati di ottimo fiuto, avendo percepito i miei panini nella borsa serbatoio. Fortunatamente la Beta parte ancora al primo colpo di kick starter, altrimenti forse questo sarebbe un racconto di memorie direttamente dall’aldilà. “Italiano sbranato da un orso nello Yukon”; tra tutti i modi di andarsene, neppure il peggiore. Almeno per il clamoroso titolo che avrei ottenuto su qualche quotidiano.
Il cartello di benvenuto in Alaska mi coglie emotivamente impreparato. È un insieme di ultimi momenti. L’ultimo incrocio a 900 chilometri dalla meta, l’ultimo rifornimento di benzina, l’ultima sosta caffè. Appaiono i cartelli con l’unica destinazione possibile: Fairbanks. Non ci posso credere.
Assaporo gli ultimi giorni di viaggio, freddo e bagnato. E i laghi, le montagne, la neve a poca distanza. E le giornate lunghissime.
E piango forte quando vedo il cartello che mi annuncia l’imprevedibile. Sono arrivato. Si dice che in determinate circostanze la mente compia un collage della propria vita, riproponendo un film accelerato. Ecco come mi sento. Arriva una valanga inarrestabile di attimi che hanno composto questo viaggio, disposti su una porzione incredibilmente vasta del planisfero. Ricordo in un secondo cosa ho mangiato, chi ho incontrato, cosa ho raccolto in un intero continente.
Passo gli ultimi giorni a preparare la moto per la spedizione, in una sorta di catatonia emotiva da cui fatico a svegliarmi.
Ho guidato per 36.209 chilometri, impiegando dieci mesi e perdendo una macchina fotografica, un cavalletto, una tenda, due sacchi a pelo e 25 chili. Mi va tutto largo e festeggio il giorno prima di partire, comprando due paia di jeans da Walmart di una misura francamente assurda ripensando a qualche mese fa.
Ci vorrà del tempo per incasellare i ricordi e le esperienze, i volti e i luoghi, dando loro un senso compiuto. O forse non è neppure necessario.
Tutto questo non fa che accrescere la mia voglia di ripartire, di avviare un nuovo motore e rimettermi per strada. Senza programmi precisi, con la consapevolezza di poter andare avanti, oppure fermarmi o addirittura tornare indietro.
L’unica cosa certa è che voglio continuare a tirar fuori i miei sogni dal cassetto.